Pietro Berti

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domenica 13 marzo 2011

Silvia Ronchey, Ipazia




dopo 16 secoli Silvia Ronchey scrive la vera storia di Ipazia da Alessandria, filosofa, matematica, astronoma, docente all'Accademia Platonica di Alessandria d'Egitto.Donna dotata di grande fascino e bellezza,trucidata per le sue idee da una folla infervorata dalla convinzione di dover spazzar via tutto ciò che rappresentava l'antica sapienza pagana.
La Ronchey, docente presso l'Università di Siena, autrice di questo libro che si intitola" Ipazia la vera storia" (Rizzoli, 6 edizioni in un mese) è convinta che la fiaccola di cui Ipazia è stata portatrice non si sia spenta. La filosofia di Alessandria d'Egitto è arrivata attraverso Bisanzio e Gemisto Pletone fino al nostro umanesimo, poi all'Illuminismo ed alle altre correnti di idee che hanno spezzato le omertà delle varie chiese e fatto di lei un simbolo di libertà di pensiero. Sicuramente Ipazia è ritornata all'attenzione con il film "Agorà" del regista cileno premio Oscar per "Mare dentro", A. Amenabar, interpretato dalla a me carissima Rachel Weisz. Ipazia si vede circondata dalla violenza di tutti. I pagani politeisti contro i primi cristiani, barbuti e straccioni, a loro volta contro gli ebrei. Pian piano a fianco dei cristiani nasce un braccio armato denominato Parapalani che si occupava di giustiziare i miscredenti. Dal nostro punto di vista vogliamo sottolineare che dal IV° sec. d.C. ad oggi non è cambiato nulla. Oggi ad uccidere sono gli integralisti musulmani che continuano a farlo in nome di dio contro gli ebrei, i cristiani ed i miscredenti. (Pietro Berti)
*** *** ***





di Emanuela Catalano
È appena stato pubblicato (10 novembre 2010) per Rizzoli il nuovo libro di Silvia Ronchey, nota bizantinista che insegna all’Università di Siena, dal lapidario titolo Ipazia. La vera storia. Intorno alla figura straordinaria di questa donna sono fiorite molte leggende e si sono sbizzarriti nel corso dei secoli anche numerosi poeti. Per riprendere il commento di Umberto Eco a tal proposito, è giusto che ci venga raccontata la vera storia di Ipazia, che non è meno affascinante delle leggende e dei miti che sono stati costruiti attorno ad essa.
Ma che cosa sappiamo esattamente di Ipazia? Sappiamo che visse ad Alessandria d’Egitto e che lì trovò la morte nel 415 d.C., per mano dei parabolari del vescovo Cirillo. Sappiamo ancora che fu filosofa neoplatonica, che insegnava le dottrine di Platone e Aristotele; fu matematica, astronoma. Eppure le renderemmo maggiore giustizia se parlassimo di lei in termini negativi, ossia dicendo tutto ciò che non fu. È lecito poi chiedersi se fu un agnello sacrificale, un capro espiatorio, vittima delle ultime propaggini del paganesimo oppure se non fu piuttosto prima strega bruciata da un antesignano dell’Inquisizione? Il libro della Ronchey riesce, nonostante le difficoltà del caso, a rendere giustizia ad una figura così poliedrica e affascinante sopravvissuta nei secoli attraverso le numerose sedimentazioni, i fraintendimenti, le distorsioni che della sua vita e del suo stesso pensiero sono stati fatti. In breve, a riportarla alla luce nella sua veste più autentica, libera, vera. Al di là delle mistificazioni e dei travisamenti, Ipazia è ricordata e ammirata perché ricercava la verità; parlare di lei – ci suggerisce l’autrice – richiede una vera e propria “iniziazione”, e i giudizi sul suo conto vanno emessi senza compromissioni o influenze del presente, al fine di ricostruire il suo pensiero e il suo sacrificio di martire della conoscenza in modo non settario, non dogmatico ma per quanto possibile laico, autentico, vero e libero.
È singolare per l’epoca che una donna vestisse i panni di “maestra” del pensiero, che godesse di tale credito e ascolto presso i suoi allievi; di lei sappiamo anche che fu una bella donna, che molti si invaghirono di lei ma che lei seppe respingerli sempre, che fu costantemente votata a questo suo amore per la conoscenza e il pensiero in tempi bui per l’Impero romano d’Occidente volto ormai al suo inevitabile tramonto. Lo stesso Paolo di Tarso, nella prima lettera ai Corinzi, suggerisce l’idea che le donne non potessero presenziare né tanto meno prendere la parola in assemblea. Ma lei non sembrava neppure a disagio di fronte alla presenza di numerosi uomini e parlava senza remore, timori, o soggezione. Fu uccisa per questo suo amore per la verità ma non lapidata – come suggerisce Edward Morgan Forster – bensì o scorticata viva, secondo la pena capitale inflitta agli eretici, o letteralmente fatta a pezzi – pena toccata in sorte a colpevoli di magia, stregoneria e prostituzione – oppure smembrata e eviscerata, secondo l’arcaica prassi del sacrificio (pag. 86).
Dopo l’editto con il quale l’imperatore Costantino aveva concesso la libertà di culto ai cristiani (313), con Teodosio verrà emanata nel 392 una legge contro tutti i culti pagani, di cui l’Egitto era la culla. Conseguenza di questa politica di intolleranza saranno la distruzione del tempio di Serapide, simbolo di tutti i templi degli idoli e l’incendio della biblioteca di Alessandria, considerata fino a quel momento cuore della cultura e depositaria di un tesoro in termini di libri e materiali provenienti dall’Antichità senza pari. I quadri dirigenti del Cristianesimo, diventato nel frattempo religione di Stato, intrapresero una mobilitazione punitiva proprio nella capitale della cultura ellenica dov’era nata e insegnava Ipazia. All’origine dell’ostilità di Cirillo era, più che la misoginia o l’odio confessionale, l’invidia – specifica il bizantino Suida – per la sua influenza politica e i suoi rapporti con Oreste. Ma la storia, si sa, è fatta dai vincitori o così si presume. E perciò è accaduto che Cirillo nel 1882 venisse nominato da papa Leone XIII Doctor Incarnationis, nonostante il monofisismo di cui il vescovo era seguace fosse stato condannato al pari di eresia nel concilio di Calcedonia del 451. E che la Chiesa di Roma non abbia mai chiesto perdono a Ipazia o messo in discussione la probità, la santità di Cirillo, sino alla celebrazione che Benedetto XVI ne farà il 3 ottobre 2007 (pag. 92).
Per quale ragione dunque proporre oggi la lettura di un testo su Ipazia?
Per chiarire i fatti in primo luogo, la confusione delirante, la trasfigurazione che della sua morte sono state fatte, trasformandola di volta in volta in un simbolo, un’idea, il vessillo di un qualche schieramento politico che traduce l’attualità. Ciò è in parte normale se si considera l’assunto di Croce, secondo il quale non si fa storia del passato se non alla luce di un problema del presente, poiché nel leggere un evento del passato lo si piega sempre in base ai propri interessi, secondo la propria dialettica politica. “Ma c’è qualcosa di singolare nella fortuna postuma di Ipazia” commenta la Ronchey (pag. 126), qualcosa che va oltre le singole vesti che la storia delle ideologie le fa indossare. Occorre pertanto percorrere a ritroso le fonti, lasciare che ci parlino, appurando la loro attendibilità o meno, ponderando il loro giudizio, ed è attraverso le voci di Socrate Scolastico, di Giovanni di Nikiu, Diderot, Voltaire, Olympe de Gouges, Nerval, Gibbon per citarne solo alcuni che l’autrice ci parla. Oggi è urgente il bisogno che la laicità si procuri un simbolo: una icona degli ideali di tolleranza, di non faziosità, di rifiuto delle fedi e delle ideologie pervasive, una portatrice della libertà di pensiero e di parola.
La vera storia di Ipazia ci suggerisce in definitiva un altro interrogativo, non meno inquietante di quello riguardante la sua morte: era davvero inevitabile la compromissione del cristianesimo con la politica, la violenza, il fanatismo? Perché la Chiesa ha dovuto far prevalere la propria tendenza all’ingerenza nelle questioni di stato, all’invischiarsi nelle questioni prettamente politiche del governo e del potere?
Un libro da leggere sicuramente, con il giusto spirito critico e la mente scevra da pregiudizi, nella consapevolezza e forse con la speranza che da qualsiasi parte ci si schieri, qualunque risposta si tenti di dare a questa domanda una cosa è certa: se vogliamo davvero rendere omaggio a Ipazia, non dobbiamo mai perdere l’occasione di leggere la sua storia in modo non settario, ma autenticamente laico, e ogni volta che, nella storia si riproporrà, il conflitto tra un Cirillo e un’Ipazia, non possiamo che concludere con la Ronchey che “siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia” (pag.193).
Silvia Ronchey, Ipazia, Rizzoli, Milano 2010, 318 pagg., 19 euro.



Ipazia, quando talebani erano i cristiani


E’ un tempo, il nostro, di crististi e teocon, in cui agli opposti estremismi si sono sostituiti, o sommati, gli opposti spiritualismi. L’onda d’urto della caduta del muro di Berlino ha provocato, negli orfani delle ideologie, un fall out di conversioni alla confortante forza dell’autoritarismo ecclesiale. C’era urgente bisogno che la laicità si procurasse un simbolo: un’icona degli ideali di tolleranza, di non faziosità, di rifiuto delle fedi e delle ideologie pervasive. L’ha trovato in un’eroina di quindici secoli fa: la filosofa Ipazia, matematica e astronoma, cattedratica nell’antica accademia platonica di Alessandria, massacrata dal fanatismo della prima Chiesa cristiana, celebrata in un crescendo di libri, biografie, spettacoli. E tuttavia la sua storia, narrata dallo spagnolo Almenábar in un film campione d’incassi, rischiava di non essere mai visibile in Italia, stato laico sulla carta ma ancora e sempre condizionato dall’esistenza al suo interno di quello della Chiesa. Nell’autunno scorso, un appello per la sua distribuzione aveva raccolto molte firme, a riprova che l’opportunismo non èun fenomeno di massa e che la maturità politica dei cittadini, non solo laici ma anche cattolici, è maggiore di quella di chi gestisce il potere, in questo caso culturale. Fatto sta che il veto, pur non esplicito, è caduto, e il film uscirà il 23 aprile. Per l’imbarazzo della Chiesa, che vi vedrà un proprio vescovo, e in seguito santo, Cirillo di Alessandria, presentato come un fanatico terrorista, un violento e un assassino, e i propri adepti non dissimili ma anzi volutamente assimilati agli integralisti islamici: nei tratti stereotipi, nei comportamenti, nei discorsi e perfino nell’accento. Un geniale rovesciamento: i primi cristiani equiparati alle fasce estreme di quell’islam che l’odierna propaganda cristiana avversa estendendo alla religione stessa l’accusa di “intrinseca malvagità”.In effetti, quando nel 392 Teodosio emanò una legge speciale contro i culti pagani nel tollerante Egitto, i quadri dirigenti del cristianesimo, divenuto religione di stato, intrapresero una mobilitazione punitiva proprio nella capitale della cultura ellenica dov’era nata e insegnava Ipazia. All’origine dell’ostilità di Cirillo era, più che la misoginia o l’odio confessionale, l’invidia — specifica il bizantino Suidas — per la sua influenza politica. Era una partita a tre quella che si giocava per il potere ad Alessandria tra l’antica élite pagana, stretta alla rappresentanza del governo imperiale, i dirigenti cristiani che volevano soppiantarla e la comunità giudaica, prima lobby dominante, ora gruppo di pressione rivale. Il primo atto dell’episcopato di Cirillo fu il pogrom antiebraico, che precederà l’attacco all’establishment pagano, incarnato in Ipazia. Contro il doppio obiettivo, Cirillo aveva strumentalizzato le frange intolleranti del deserto di Nitria, “cui si dava nome di monaci ma che tali in realtà non erano”, scrive Eunapio, bensì fanatici miliziani “che apertamente compivano e assecondavano crimini innumerevoli e innominabili”. Questi talebani che avevano già distrutto e saccheggiato il Serapeo vent’anni prima, sotto Teofilo, zio e predecessore di Cirillo, sono gli stessi che tenderanno un agguato al corteo di Ipazia e la trucideranno “spogliandola delle vesti, facendola a brandelli con cocci aguzzi e spargendo per la città i pezzi del suo corpo brutalizzato”, secondo lo storico cristiano Socrate, “incuranti della vendetta divina e umana”, aggiunge il pagano Damascio.La rappresentazione della violenza fondamentalista dei parabalani cristiani del futuro monofisita Cirillo è il punto di forza del film. Il suo maggiore merito è quello di far riflettere sulla vocazione estremista e sugli eccessi della Chiesa alle origini del suo potere, riaccendendo un dibattito diffuso nei secoli in cui un’intellettualità ecclesiastica esisteva e discuteva. Perché nell’immensa fortuna storica e letteraria della vicenda di Ipazia, cavallo di battaglia dell’anticlericalismo illuminista da Voltaire a Gibbon, ha avuto un ruolo più che ampio la cultura ecclesiastica, anche ma non solo riformata: se il primo editore delle fonti sul suo assassinio fu il protestante Wolf e il suo più appassionato difensore l’anglicano Kingsley, è stata quasi tutta cattolica la rievocazione letteraria di Ipazia, dalla torinese Diodata Saluzzo Roero a Leconte de Lisle, da Péguy a Luzi. In campo erudito, con la rilevante eccezione del giansenistaTillemont, prudente e giustificatorio, l’ala modernista del cattolicesimo ha analizzato spregiudicatamente le cause politiche del misfatto di Cirillo. E ha anche chiarito la reale personalità di Ipazia. Il suo profilo e il suo sacrificio, così importanti nella storia della politica e del pensiero, nel film sono accattivanti ma troppo semplificati, fino ad essere tacciabili di quello stesso ideologismo di cui la figura dell’antica filosofa dovrebbe essere la negazione. Se vogliamo davvero renderle omaggio, invece, non dobbiamo perdere l’occasione di leggere la sua storia in modo non settario, ma autenticamente laico. estratto da: http://www.silviaronchey.it/articoli/noi_antichi/antichi/lastampa_140410.html

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